Ancora sui personaggi



Per dare efficacia alla nostra storia dobbiamo assolutamente creare dei personaggi realistici, convincenti e credibili.
Ma, una volta ideati, come possiamo procedere nel presentarli ai lettori?
Intanto abbiamo capito che:
1.Occorre farsi ispirare dalla realtà!
Ce lo ha ricordato anche la scrittrice Silvia Vecchini che abbiamo incontrato la settimana scorsa e che ci ha raccontato che, per molti dei suoi personaggi, ha tratto ispirazione da suoi amici d’infanzia.
Per creare un personaggio credibile occorre guardarsi attorno, osservare amici, conoscenti e sconosciuti, poi provare a mescolare le caratteristiche osservate con aspetti nostri o di altri individui e lavorare di fantasia.
In che modo ci saluta il panettiere?  Che tono di voce ha la zia? Qual è il nostro sogno nel cassetto? 
Magari mettendo insieme questi aspetti riusciamo a creare un nuovo personaggio.


2. I personaggi devono essere credibili
I personaggi, anche nei contesti più assurdi e nelle trame più avvincenti, devono compiere azioni della vita di tutti i giorni. Per questo basta che vi guardiate in giro. 
Se descrivete uno scienziato  osservate o pensate ai gesti propri del suo mestiere:  indossa i guanti di lattice, il camice, usa provette, sistema il laboratorio.

3. Descrivere l'aspetto fisico 
L’aspetto fisico non è solo statura e colore degli occhi: prestate attenzione ai particolari: un tatuaggio nascosto o ostentato, il modo di indossare un cappello, la cura eccessiva o assente dei capelli, le calzature... anche lo sceglierle a casaccio dice molto del personaggio!

4. Calate i personaggi in un’epoca e in un ambiente

Dobbiamo sempre contestualizzare i nostri personaggi.
Una volta creato il background, il lettore si costruirà aspettative diverse. Vedremo prossimamente come "cucinare" il WHERE che costituisce un altro ingrediente fondamentale delle storie.

5. Mostrare non descrivere
Lasciate emergere la fisicità e il carattere dalle azioni. Se il vostro personaggio è una ragazza timida, potrebbe parlare controllando costantemente le doppie punte dei suoi capelli. Una ragazza estroversa guarderà il suo interlocutore negli occhi. Se mostriamo come un personaggio si comporta, possiamo evitare di descriverlo.
Non scriviamo: è un ragazzo timido, ma alla fine di una conferenza, alle “domande del pubblico”, facciamogli alzare la mano a mezz’asta, per poi riabbassarla subito.
Due modi efficaci per mostrare sono il flashback ed il dialogo:
Grazie al flashback possiamo raccontare il passato di un personaggio e quindi  far  capire al lettore la sua personalità.
I dialoghi sono il modo migliore per mostrare direttamente un personaggio: cosa dice, come lo dice, il linguaggio che usa (slang, modi di dire), la pause; in questo caso, oltre alle parole, prestiamo attenzione al modo in cui qualcosa viene detto: tono, velocità, timbro, volume, ecc. della voce.
Insomma anziché cominciare a svelare tutto e subito distribuiamo informazioni del personaggio qua e là nel testo. 
Ma lasciamoci guidare da uno dei più grandi maestri della letteratura italiana, Alessandro Manzoni e scopriamo  le tecniche che lui ha utilizzato per la presentazione di un suo personaggio:
Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa... don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra


Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti.... Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon... Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni, uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone... a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi.
Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perchè, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sè stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide 
nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra demuricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorchè i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perchè i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che potè, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. “Signor curato,” disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia.
 “Cosa comanda?” rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.

“Lei ha intenzione,” proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, “lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!”

“Cioè...” rispose, con voce tremolante, don Abbondio: “cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.”

“Or bene,” gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai.”

“Ma, signori miei,” replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, “ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca...”

“Orsù,” interruppe il bravo, “se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c’intende.”

“Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...”

“Ma,” interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, “ma il matrimonio non si farà, o...” e qui una buona bestemmia, “o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e...” un’altra bestemmia.

“Zitto, zitto,” riprese il primo oratore: “il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.”
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: “se mi sapessero suggerire...”

“Oh! suggerire a lei che sa di latino!” interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. “A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?”

“Il mio rispetto...”

“Si spieghi meglio!”

“... Disposto... disposto sempre all’ubbidienza.” E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.

“Benissimo, e buona notte, messere,” disse l’un d’essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. “Signori...” cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s’intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de’ tempi in cui gli era toccato di vivere.

Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui...Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete….

E ora subito al lavoro:




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